lunedì 30 aprile 2012

Il parco giochi



Ecco che sei di nuovo al parco giochi. 

Del resto è giusto così. Rientra nella tabella di marcia. Quello che ti dispiace è che non riesci a gustartela affatto, perché quando tutto si incastra in maniera così certosina, ti sembra che anche questo sia un impegno, un tempo nel quale dovresti essere altrove.

Comunque sei lì, nella calda afa di luglio, quando la città si svuota un po’, ultimamente mai del tutto a dire il vero, nella solita panchina.

I bimbi si insediano rapidamente, improvvisano con maglie e zainetti le loro porte ed iniziano a giocare a calcio. E’ un parco molto frequentato, pieno di mamme, papà, nonni, bimbi piccoli, ragazzini e ragazzi più grandi. 

Si trova attorno ad un centro sportivo molto attivo. C’è anche un campo da basket e una pista da pattinaggio. Alcune macrostrutture adatte alle diverse età dei bimbi e un’altalena. Tante panchine.

Ognuno si mette al suo solito posto, tanto che se qualcuno si siede nella tua panchina, ti fa quasi uno sgarbo come per voler cambiare il corso degli eventi.

E’ l’occasione per parlare. 

I più anziani ti raccontano il passato, le mamme ed i papà le difficoltà delle scuola dei figli, raccolgono soldi per le feste di compleanno, sono in pausa transitoria prima di portare i figli a danza, catechismo, tennis, inglese. 

Chissà se i nostri bambini crescendo ad alta velocità e ad alta definizione, riusciranno a stare al passo con i tempi che corrono ?

Comunque ognuno con i suoi motivi è lì, al parco giochi.

Scambi formali, informali, assenza di scambi. Giorno dopo giorno ti sei abituato a quel contesto e non lo vedi più. Ti sembra che ciò che ti circonda faccia parte della normalità.

Eppure quella tappa che è un impegno ha una grande ricchezza. Ti costringe a fermarti in pausa, ad annoiarti. Ed è proprio in quel momento che apri gli occhi.

Il parco è sporco, ci sono cartacce ovunque, mozziconi di sigaretta, vetri rotti, lattine, fazzoletti, cacche di cane in terra. Le persone siedono spesso accanto ai rifiuti con una flemmatica indifferenza. Non te ne accorgi più alla fine ? Non spetta a te toglierle ? 

Quali sono i pensieri che abbiamo quando non agiamo pur vedendo che attorno a noi le cose peggiorano e degradano ?

I cestini sono rotti, spesso spezzati da qualche azione violenta notturna.
I giochi in legno così come le panchine sono scheggiate, rovinate dal tempo ma anche dalla totale assenza di manutenzione.

Il giardino, a causa dell’assenza di pioggia, è completamente secco. In molte zone l’erba non c’è più. Sono tanti i ragazzi, anche grandi, che giocano a pallone e questo determina un gran polverone che con l’arsura entra nella bocca e negli occhi.

E come se non bastasse, c’è anche un personaggio “losco” assieme a un gruppo di giovanissimi di 13-14 anni. Quando cominci ad indagare scopri che tutti sanno che spaccia. Droga leggera, si spera. I carabinieri sono stati allertati più volte. Spesso non riescono ad intervenire. Altre volte quando arrivano a sirena spiegata, lui si è già dileguato, e vengono fermati i giovani con il volto disorientato magari con niente in mano.

Hai aperto gli occhi. 

Eppure quel posto lo frequenti tutti i giorni. E’ un processo di abituazione: piano piano, senza che tu te ne accorga, di abitui ad un contesto che cambia in peggio.

Finchè, ad un certo punto, un piccolo gruppo di genitori si attiva !

Iniziamo a raccogliere le firme. 

Quando ti avvicini con il foglio e la penna vedi negli occhi molta diffidenza.

Quanti tentativi di vendita dobbiamo fronteggiare ogni giorno che fanno sì che, quando qualcuno ci si avvicina, temiamo l’intrusione ? 

Alcuni dicono : "perché cosa c’è che non va"

Molti però firmano. Tanti dicono “l’avete visto lo spacciatore?”, lo sapevano tutti allora ! Alcuni non firmano e dicono: "io vengo poco".  Qualche anziano dice: "io non firmo, ma se mi date un rastrello  tiro su le foglie".

Così parte la lettera al quartiere. 

Dopo circa un mese arriva la risposta. La manutenzione non è di competenza del quartiere, ma del centro sportivo. Chissà perché la competenza non è mai dell’interlocutore al quale segnali l’evento. Ma l'ente pubblico non dovrebbe controllare ? 

Ci hanno venduto che la soluzione dei nostri mali è l’esternalizzazione. E’ già realizzata in così tanti settori. Ma davvero si può pensare di affidare ai privati i beni e servizi di tutti, perdendone il governo e senza prevedere controllo e supervisione ?   

Comunque la società sportiva è stata “invitata a conformarsi agli adempimenti entro 15 giorni” (così c'è scritto nella risposta).  La mala frequentazione del parco è già nota anche alla Polizia municipale e verrà portata all’attenzione del Comitato locale per la sicurezza. In pochissimi giorni i monti di foglie vengono spazzati via dal prato.

Tutto troppo semplice all’apparenza. Purtroppo arriva già il mese di ottobre  e piano piano le famiglie smettono di uscire perché arriva il freddo. L’inverno mette tutto a tacere. Per fortuna di chi deve attivare azioni di cambiamento.

In primavera ecco che si riparte. Il giardino è abbastanza uguale a se stesso. Molte panchine sono state riparate alla meglio. E’ quella parcellizzazione dell’intervento che ti fa sembrare che ci sia del movimento, della “mossa”, invece, sono piccoli ritocchi. 

Meglio di niente, tutti dicono, almeno non ti si rompono le calze quando ti siedi. 

E’ vero ! C’è sempre un modo di vedere le cose in positivo. L’erba che c’è ringrazia l’inverno piovoso e nevoso. Il personaggio “losco” si fa vivo, attraversa il parco, ma sembra si sia spostato nel giardino a 200 metri. Tutto il resto è immutato. Lo sporco a causa della frequentazione ricomincia. E ci si ritrova un’altra volta nel giardino sulle panchine a dire: che facciamo ?

I cambiamenti sono faticosi e richiedono impegno.

Quelli provocati e gestiti dal basso, poi, richiedono tanta energia, capacità di raccordo, tenacia.

Molti tentativi possono a andare a vuoto. Si devono accettare anche risultati parziali. Ci vuole tempo per organizzare, ce ne vorrebbe molto ad esempio per creare una rete di volontari, per fare sentire di più a chi amministra che il parco è un bene comune, un’area dove la gente si ritrova, socializza, dove i bambini e i ragazzi possono stare in mezzo alla natura e sperimentare attività di gioco e di sport. 

Tutto questo ti importa. 

Ma purtroppo c’è un corollario inevitabile: se non fai un po’ di fatica è segno che non ti importa per davvero. Me lo continuo a ripetere.

Silvia.

lunedì 23 aprile 2012

The Core


Sto leggendo l'interessantissimo articolo di Vitali, Glattfelder e Battiston, del Politecnico di Zurigo, intitolato: "The Network of Global Corporate Control".

Ecco qui il link per scaricarlo: http://arxiv.org/pdf/1107.5728v2.pdf

I risultati di questo lavoro sono stati recentemente divulgati anche da Repubblica


In estrema e brutale sintesi: 

analizzando la rete delle partecipazioni azionarie delle principali Aziende Multinazionali del pianeta (per l'esattezza 43060 aziende) e risalendo a ritroso la relazione controllante-controllata, si scopre che una piccolissima frazione di grandi Società (per l'esattezza 147) in prevalenza finanziarie e fortemente interconnesse,  controlla - da sola -  il 40% del valore complessivo del sistema.

Le Società facenti parte di questa ristrettissima cerchia formano il "Core" del Sistema, il nucleo di controllo, il motore immoto di tutto il cosmo economico-finanziario mondiale che è di conseguenza fortemente influenzato dalla volontà di questo centro di potere.

Cito testualmente dall'articolo:

<<
We find that, despite its small size, the core holds collectively a large fraction of the total network control. In detail, nearly 4/10 of the control over the economic value of Trans National Corporations (TNCs) in the world is held, via a complicated web of ownership relations, by a group of 147 TNCs in the core, which has almost full control over itself. The top holders within the core can thus be thought of as an economic “super-entity” in the global network of corporations. A relevant additional fact at this point is that 3/4 of the core are financial intermediaries.
>>

Pensiamoci bene, molto bene, quando ci raccontano la favoletta del Libero Mercato.

Libertà e concentrazione-di-potere sono due concetti uguali e contrari, si negano a vicenda, non possono essere in nessun modo conciliati.

E' ora che iniziamo a chiamare le cose con il loro nome e a comportarci di conseguenza.

domenica 22 aprile 2012

Homo Homini Lupus ?


Sono stato parecchio assente da questo blog negli ultimi tempi, e non solo per colpa del troppo lavoro che non mi ha lasciato tempo per scrivere, ma soprattutto per un crescente senso di sfiducia e scoramento che mi ha tolto la voglia di manifestare idee e proporre agli amici di Piazzaverdi temi di discussione. 

Questo scoramento è nato dalla consapevolezza che cresce giorno-dopo-giorno di quanto il mondo attorno a noi, nel nostro paese, si vada piano-piano deteriorando. Citando Eric Fromm, di quanto il "valore dell'Avere" stia superando negli uomini  il "valore dell'Essere". Di quanto cioè "l'avidità, l'incorporazione di cose e simboli, il possesso, il dominio, la proprietà acquisitiva" stia assumendo un ruolo sempre crescente nei confronti, ad esempio, della "creatività, del coinvolgimento, della ricerca di connessioni emozionali dei concetti, del dialogo". 

Se guardiamo bene come sta sviluppandosi la società in questo inizio di XXI secolo, appare sempre più evidente come i vecchi "valori" di un tempo, neppure troppo lontano, non siano più tanto quelli che guidano il  vivere quotidiano dei cittadini. In Italia, la voglia di proporre "idee" è molto calata, in politica i partiti si sono praticamente evaporati sotto le percosse della finanza e le stesse richieste di una società più "giusta", reclamate dai cittadini, si stanno facendo sempre più flebili. 

Il prof. Galimberti (vedi il post di  Sandro  di qualche giorno fa) ha ben spiegato il perché di tutta questa "calma piatta" che caratterizza il nostro tempo e perché invece non avveniva, o era presente molto meno, anche solo una quarantina di anni fa. Sicuramente il mondo della fine degli anni '60 era diverso, anzi, molto diverso da quello di oggi. E sicuramente non si viveva  meglio di oggi, in quegli anni, quanto a disponibilità di risorse materiali, danaro e beni di ogni tipo. Credo che tutti i cinquantenni di adesso condivideranno che, da piccoli, si andava spesso in cinque in FIAT seicento, si abitava in case meno confortevoli di oggi, non esistevano mezzi veloci di trasferimento delle informazioni, non c'era internet che permetteva di parlare con un amico in Germania o Stati Uniti in tempo reale, e tante altre belle cose che, in una parola, potrei chiamare: modernità.

Però, pur non essendo certo un fautore del detto qualunquista "si stava meglio quando si stava peggio", devo riconoscere che in quegli anni si usava un po' di più il tempo anche per discutere, per relazionarsi con gli altri, accalorandosi per ore, magari inutilmente apparentemente, sui grandi temi della giustizia, della politica (nazionale e internazionale), del sociale, della scuola. Esisteva una "destra", un "centro", una "sinistra", i gruppi extra-parlamentari di "destra" e "sinistra", che rappresentavano i diversi e contrapposti modi di pensare di noi tutti. C'era poi un fortissimo dibattito anche su temi  non strettamente politici (si pensi alle dispute sul divorzio e l'aborto...). 

Ma c'erano anche temi dove c'era convergenza di vedute. La prima di queste convergenze era sull'importanza stessa del dialogo, della contrapposizione delle idee. Sul fatto che si poteva non essere d'accordo sui valori ma nessuno metteva in discussione che ci fossero per l'appunto, dei valori, su cui discutere. In quegli anni era poi abbastanza difficile sentire mettere in crisi, almeno di grandi partiti di massa, quelle che venivano considerate le pietre miliari che caratterizzano lo stato "sociale", e direi anche "etico", della nostra società. Ad esempio il Lavoro era considerato una cosa quasi "sacra" visto che  la società si basava (e si basa anche oggi, non va dimenticato) sul lavoro delle persone, che operano nel pubblico e nel privato, per costruire "cose", produrre "merci", favorire la ricerca, insegnare ai giovani, migliorare la qualità della vita, insomma creare  "ricchezza" materiale e spirituale. Nel pieno rispetto di quello che la nostra Costituzione sancisce. 

Addirittura la nostra Repubblica si "fonda" sul Lavoro (val la pena di rileggersi, ogni tanto, l'articolo 1) e affida al popolo la sovranità e poi la definizione e il rispetto delle regole della convivenza civile.
E dice anche molto di più, la Costituzione, quando ad esempio asserisce (all'articolo 4) che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le "condizioni che rendano effettivo questo diritto". E in più, ogni cittadino ha il dovere di svolgere una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. E poi ancora che ogni lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa (art. 36).  Si parla persino di lavoro come strumento di crescita spirituale della società !

Non c'è che dire, si tratta di frasi pesanti che non possono creare equivoci di sorta e che ci dicono che il Lavoro non è solo un "mezzo" necessario a garantire l'acquisizione di denaro per la sopravvivenza, ma assume anche un  valore "etico" in quanto è un diritto e uno strumento necessario per  far crescere la dignità degli esseri umani e della società. Io almeno interpreto in questo modo, direi laico, il significato delle parole crescita spirituale. 

Mi chiedo: di queste cose si parla ancora, ad esempio all'interno dei grandi partiti di massa ? Oppure sono state messe in dubbio queste regole auree in ossequio ai nuovi dei che si chiamano Mercato, Finanza, Spread, Debito Sovrano, Speculazione ecc..?

Rileggendo queste norme costituzionali e, contemporaneamente, guardando "da fuori" i nostri stili di vita, e le nuove regole che sono state imposte dai Mercati alla nostra società, mi viene sempre più spesso da chiedere se vivo ancora in questo pianeta e se questo è ancora il mio Paese. E da qui, ecco spiegato il mio scoramento di cui accennavo all'inizio. 

Si, perché io, anzi noi di Piazzaverdi,  saremo anche degli inguaribili idealisti un po' romantici, ma facciamo obiettivamente fatica a conciliare questi principi "etici" con l'attuale idea di Società che sta proponendosi, essenzialmente senza dibattito (!), e dove, ad esempio, si parla di bellezza del lavoro "flessibile", o di "noia" che produrrebbe il lavoro fisso.  Cosa vuol dire esattamente il nostro premier quando asserisce che la riforma attuale del lavoro, che dovrebbe appunto premiare la flessibilità, : "...rende il mercato più efficiente ?".
Significa forse che se una linea di produzione in una ditta non crea più profitto allora si può mandare a casa serenamente il personale per giuste motivazioni economiche ? (Questo è in sintesi il succo della proposta di modifica dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori). E allora, mi chiedo, dove andrà a finire la dignità del lavoro e la dignità delle persone, così fortemente tutelate dalla Costituzione ? 

In questa nostra società iper-liberista vengono ogni giorno sempre più minati alcuni dei concetti "sacri" che sono stati i fondamentali mattoni sui quali i popoli si sono sviluppati, durante la loro storia. E' sicuramente grazie al lavoro della sua gente che l'Italia è uscita dalla grande crisi dopo la seconda guerra mondiale, non certo per merito delle speculazioni finanziarie...

Oggi un giovane,con un'età di 30 anni o anche più, che passi da un lavoro part-time, o "cococo" o "cocopro", ad un altro analogo ogni tre-sei mesi (se è fortunato), quale progetto di vita potrà mai darsi ? E, parallelamente, se si pensa di poter "licenziare" per giusta causa economica un padre o madre di famiglia, magari monoreddito, e magari a 50 anni, solo perché è semplicemente diventato "meno utile" o poco "inseribile" nei nuovi processi di produzione, dove va a finire le dignità di quel lavoratore ? Con buona grazia degli ammortizzatori sociali che, per altro, in Italia, differentemente da altri paesi, fatico a vedere...

Oppure, si pensi ad un pensionato che si vede calare ulteriormente la sua già bassa pensione (magari di meno di 800 euro al mese) a causa delle nuove tasse, necessarie non già per creare servizi ma solo per pagare un debito sovrano creato dai "geni" della Finanza creativa (non ce lo scordiamo mai !), come potrà anche solo sopravvivere ? E la sua dignità di uomo, dove va a finire in quel caso ? Ha lavorato per il paese, quando risultava essere un tassello utile, adesso è solo un "peso", non "funziona" più. Che capolavoro !

E' evidente che una società che  perde il senso "etico" della parola Lavoro, tende a perdere anche un po' il significato di altri valori molto prossimi, quali quello della solidarietà sociale, ad esempio, o della crescita etica da creare "assieme". Al contrario della solidarietà crescono e cresceranno sempre più le guerre tra "poveri", cioè ad esempio tra chi il lavoro ce l'ha (anche se a basso reddito) e chi non ce l'ha, come i giovani precari. E tali guerre tra poveri vengono ignobilmente alimentate citando la parola "crisi" come spauracchio sociale, al posto di attaccare il problema da altre parti, ad esempio colpendo le grandi rendite, i salari dei pochi super-ricchi che detengono il super-potere, e soprattutto promuovendo il lavoro, la ricerca, l'innovazione tecnologica, le nuove professioni della green economy, creando posti di lavoro per la salvaguardia e la tutela dell'ambiente e del territorio. Invece si parla del mito della flessibilità. Che fantasia !

E quel che è peggio è che, piano-piano, anche tutta quella parte della società catalogata come ceto medio, sta iniziando a credere a questa storiella della flessibilità e invece di ribellarsi contro un sistema politico cieco e essenzialmente asservito ai diktat della Finanza, alla fine sta spaccandosi al suo interno in una contesa senza senso, appunto, tra poveri, che potrebbe inasprirsi in futuro, dove ogni cittadino inizia a vedere nell'altro non già  un alleato, ma piuttosto un antagonista. Quindi ecco il "cococo" che se la prende con il lavoratore "fisso", il "lavoratore" che se la prende con il "pensionato", il lavoratore italiano che se la prende con l'extra-comunitario e così via...

Tutto ciò può produrre uno sfaldamento della società, che si verifica un po' a tutti i livelli, compreso quello culturale e che si realizza nella minore attitudine a condividere conoscenze, saperi, a produrre un maggior riserbo tra le persone, perché nasce il sospetto che  l'altro potrebbe divenire quello che ti danneggia, quello che potrebbe rubare il posto a tuo figlio o a tuo fratello. Come se il posto di lavoro, per ogni cittadino, non fosse appunto più un diritto ma una "meta" da conquistare e, una volta raggiunta, da difendere con le unghie e  usando ogni arma a disposizione.

Sto constatando anche nel mio ambiente di lavoro questa crescente forma di chiusura, che era quasi assente anche solo venti anni fa, verifico ogni giorno nel mio piccolo una maggiore difficoltà a confrontarsi, a scambiare idee. Al contrario, verifico una maggior tendenza a chiudersi in una specie di isolamento intellettuale, in modo da non correre il rischio di essere superati, di non avere interferenze nelle proprie competenze. 

Perché, in fondo, c'è un aumentato senso di insicurezza. Che, frettolosamente, viene spesso tacciato come uno sottoprodotto del generale imbarbarimento della società, che per altro è anch'esso altrettanto presente.

Stiamo dunque per diventare una società dove varrà sempre più il detto homo homini lupus ?

Che si fa ?

sabato 21 aprile 2012

Ricomincio da 0-3


Ricomincio da tre. Diceva Massimo Troisi. “Tre cose me so' riuscite dint'a vita, pecché aggi'a perdere pure chelle? Aggi'a ricomincià da zero? No, da tre!” 

Quelle tre cose buone non valeva proprio la pena gettarle via, nel mucchio.

Io sono d'accordo con Troisi e credo che dobbiamo proprio ripartire da 3, anzi, da 0-3, e forse anche da 0-6. Intendo dire che dobbiamo ricominciare o forse proprio cominciare la rivoluzione (del nostro stile di vita, del nostro modo di pensare, di essere e di vivere in relazione) partendo dalla primissima infanzia, da quel territorio della vita in cui si struttura la personalità di coloro che, dopo vent’anni, saranno adulti.

Ho ancora nella mente quell’angolino in fondo a sinistra nell’ampia sezione della scuola dell’infanzia (allora si chiamava materna). Quell'angolino dove venivo mandata tutte le volte che le suore non accettavano i miei comportamenti. Non ricordo i pensieri che attraversavano la mia mente. Ricordo solo l’emozione, il senso di umiliazione e la riga di congiunzione delle due pareti che si incrociavano davanti a me.. 

Accanto a questa immagine ed al ricordo del riposino (vero o finto?) da consumare con la faccia sopra il banco, è forte anche l’altra emozione, quella di quando si aprivano le porte-finestre che davano sul giardino e ci “liberavano”. Quella corsa, il respiro ed il cuore in velocità, le grida dei compagni che rimbombavano nelle mie orecchie e la sensazione di gioia che mi accompagnava.

Il ricordo di quella piccola e grande umiliazione e di quella voglia di libertà sono ancora molto vive in me. 

E nella scuola di oggi che cosa accade? 
Dopo così tanti anni che cosa è cambiato? 
Possibile che gli strumenti educativi siano sempre gli stessi nonostante il mutare delle teorie pedagogiche e le incredibili scoperte delle neuroscienze ? 

Anche dopo aver scoperto che il bambino piccolissimo è già competente e sempre alla ricerca di significati, imperversa nelle scuole ancora un modello gerarchico, verticale, dove i bambini vengono modellati per adeguarsi a ciò che l’adulto ha pensato per lui. 

Le esigenze della didattica arrivano in cascata dagli ordini di scuola superiore e si insinuano pian piano anche nel mondo della primissima infanzia.

Non è facile, per chi non frequenta il mondo della scuola, comprendere le differenze. Le differenze tra i diversi atteggiamenti mentali e i differenti stili educativi che concorrono alla formazione di tipologie di individui e cittadini tra loro molto differenti.

Pensate alla maniglia della porta ad esempio. 

Ci sono servizi per bambini da 0 a 3 anni (quelli ispirati al pensiero montessoriano), dove la maniglia delle porte è posta all’altezza della mano del bambino (quindi molto in basso). Altri, invece, dove la maniglia è posta molto in alto, all’altezza della testa dell’adulto. 

Il contesto di vita non cambia. I messaggi veicolati moltissimo.

Nel primo caso sto dicendo ai piccoli cittadini della scuola che si possono muovere in uno spazio pensato proprio per loro, che possono spostarsi in autonomia e scegliere quale attività svolgere: li incentivo ad assumere gradualmente pezzi di responsabilità. 

Nel secondo caso dico alle stesse persone che da lì non si può uscire e che sono controllate continuamente perché altrimenti potrebbero avere voglia di fare cose che non devono fare.

E’ un discorso difficile da fare questo. Perché  spesso pensiamo che il buon funzionamento di un  sistema sociale si possa ottenere solamente quando ci sono imposizioni calate dall’alto ed è difficile credere che le abilità, le competenze e le responsabilità degli individui si possano affermare attraverso l’autodeterminazione.

Ricominciare da 0-3 quindi, da quell'età della vita in cui si struttura la personalità e si acquisisce anche il senso di come funziona il mondo. 

Acquisire l’idea che le cose che sono di tutti vanno trattate bene e rimesse al loro posto, perché questo significherà poi, domani, avere rispetto per i beni comuni.

L’idea che le insegnanti non devono urlare ma parlare a voce bassa e pacata, perché questo afferma il valore che non ha ragione chi urla di più.

L’idea che l’organizzazione del contesto comune (lo spazio fisico, il tempo, gli strumenti), ha - a monte - un pensiero educativo, che tiene conto delle esigenze di ogni bambino, e che cambia nel tempo al modificarsi dei bisogni e delle competenze acquisite.

In questo modo affineremo la capacità di essere attenti all’individuo e, allo stesso tempo, alla socialità senza pensare che questi interessi siano per forza contrapposti.

Se, nel contesto che mi accoglie, trovo attenzione ai miei bisogni di individuo in crescita, diventerò un adulto più attento, più sensibile a cogliere i bisogni degli altri e più rispettoso dei beni comuni.

Nessuna prova empirica e "sperimentale" di tutto ciò naturalmente. Servirebbero studi longitudinali. 

Ed anche in presenza di questi studi e di queste "prove empiriche" qualcuno potrebbe protestare: sta a vedere che tutto dipende (e solo) dall’infanzia ! 

Sembra una lettura banale e semplificante. 
E’ più facile pensare che con la crescita si maturi una personalità in autonomia, che siamo liberi di scegliere come essere e come diventare.

E’ opprimente credere al fatto di essere stati (e di essere) condizionati. 
Faticoso pensare che il nostro evidente individualismo, il nostro poco senso della collettività, possano essere determinati dalle modalità educative che sono state adottate per la nostra formazione e che vengono ancora sancite come modalità “imprescindibili” nella attuale scuola dell’obbligo.

Probabilmente, in fondo in fondo, in ognuno di noi, è sempre presente l’idea che la democrazia va bene ma fino ad un certo punto. E' ancora latente, soprattutto in Italia (non sarà un caso se il pensiero montessoriano sia riuscito ad attecchire in tantissimi paesi e non nel nostro), l’ìdea che ad un certo momento ci voglia un po’ di forza, un po' di ordine, un po' di autorità. 

Qualcuno, illuminato, che guidi tutti dall'alto

Qualcuno che sappia quale è il bene comune e ce lo imponga.

Non c'è, in fondo, tanta differenza tra il nostro sistema scolastico e il modo in cui anche noi cittadini-adulti veniamo governati.

O sbaglio?

Silvia.

mercoledì 11 aprile 2012

Venderò, Comprerò, Speculerò.


Da quello che ho letto e capito cercando su Internet e leggendo qualche testo (consiglio, a questo proposito, il bellissmo FinanzCapitalismo di Luciano Gallino), una delle più diffuse tipologie di titolo derivato ha la seguente forma:

D = <A, B, Q, X, P, T>

Dove:

A è un venditore
B è un acquirente
Q è una certa quantità (espressa in una certa unità di misura)
X è una certa "merce" (detta anche: sottostante)
P è il prezzo
T è la scadenza temporale (futura) del contratto

e si legge:

A si impegna a vendere a B la quantità Q della merce X al prezzo P entro il tempo T.

In pratica è la descrizione di una transazione economica futura (forse è per questo che li chiamano, in inglese, futures).

Una transazione della cosiddetta economia reale, quella in cui si parla di merce e di scambi di cose vere tra esseri umani veri in cambio di denaro vero.

E' la descrizione contrattualizzata di uno scambio che avverrà nel futuro ed esprime la certezza (leggi: il reciproco impegno) che, tra i due contraenti, si realizzerà una ben precisa transazione economica a condizioni certe ed entro un tempo perfettamente stabilito.

A cosa serve ?

Sostanzialmente a gestire e limitare il rischio e l'incertezza derivanti dalla volatilità dei prezzi.

Se io produco la merce X e, per produrla ho sostenuto un costo C, l'unica cosa di cui vorrei essere certo è quella di poter sempre trovare un acquirente (un cliente) disposto a comprare la mia merce ad un prezzo P maggiore di C e, auspicabilmente, molto maggiore di C.

Però non ho questa certezza e quindi, se decido di fare il produttore nella vita, corro inevitabilmente dei rischi.

Rischio perchè tra la produzione e la vendita passa un certo tempo, rischio perchè i costi sono certi e immediati mentre i ricavi sono incerti e futuri, rischio perchè la mia merce, oggi, ha un mercato mentre domani - quando avrò finito di produrla - questo mercato potrebbe non esserci più e la mia merce potrebbe essere stata sostituita da un nuovo tipo di merce più appetibile, più desiderabile, magari anche più economica.

Per questo è comodo e utile dotarsi di un contratto derivato perchè rende certa una transazione futura e azzera il rischio di chi produce oggi e non ha nessuna certezza di vendere domani.

Stai tranquillo, produci la tua merce, sostieni i tuoi costi, il contratto derivato che hai stipulato ti assicura che entro il tempo T esiste l'acquirente B disposto ad acquistare una quantità Q della tua merce X al prezzo P (maggiore dei costi che hai sostenuto).

Ci mettiamo d'accordo prima, insomma: io produco e tu mi aspetti e poi acquisti.

Non facciamo scherzi: patti chiari amicizia lunga !

Da questo punto di vista il derivato D = <A, B, Q, X, P, T> è una invenzione geniale è la manna dal cielo, ci fa dormire sogni tranquilli.

...

Ma, cosa succede se.... il derivato D diventa, esso stesso, una .... merce ?

Cosa succede se D inizia ad avere un suo mercato, ad essere scambiato, a passare di mano in mano, ad avere un prezzo e un valore tutto suo ?

Perchè io, che non sono nè AB (nè produttore nè acquirente) dovrei essere interessato ad acquistare il titolo D che non mi riguarda ?

Forse perchè ho studiato l'andamento del prezzo di X ed ho capito che mi conviene iniziare a speculare !

Ad esempio noto che l'andamento del prezzo di X è, da molto tempo, sempre calante nel tempo, continua a scendere e non accenna a fermarsi.

E, ad un certo punto scende sotto il valore P (il prezzo fissato dal titolo derivato).

Cosa mi conviene fare a questo punto ?

Potrei acquistare una certa quantità Q della merce X diciamo al prezzo Pa ( minore di P ) e contemporaneamente acquistare il titolo derivato D in qualità di venditore (A) pagandolo un prezzo Pd (non compro solo la merce X ma anche il titolo D).

Il tutto mi costa una cerca cifra C (che magari non possiedo neanche e quindi mi faccio prestare da una Banca ad un certo tasso di interesse ma ... semplifichiamo per il momento !):

C = Pa x Q +Pd

La cifra C, per opportuni valori di Pa e Pd è sicuramente minore del valore espresso dal contratto derivato

V =  P x Q

che esprime il valore della vendita che il contratto D mi garantisce di poter effettuare entro il tempo T.

Poi non faccio altro che aspettare che passi il tempo.

Aspetto che arrivi la data di scandeza T scritta sul contratto derivato.

Il prezzo della merce X, a quel punto, può fare quello che vuole: può anche continuare a crollare e diventare anche negativo. Non mi interessa: perchè io ho acquistato al prezzo Pa (minore di P) e sono certo di poter rivendere al prezzo P che è maggiore di Pa.

Ed è tanto maggiore da riuscire a coprire anche il costo del titolo derivato Pd che mi garantisce proprio la certezza di poter vendere la mia merce al prezzo P.

Ecco dunque il mio "meritatissimo" ricavo:

R = V - C = P x Q - Pa x Q - Pd = Q x (P - Pa) - Pd

che è positivo se:

Pd  < Q x (P - Pa)

cioè se il prezzo del contratto derivato è minore del ricavo lordo.

Insomma, grazie al mercato dei derivati, mi sono procurato un ricavo certo, esente da rischi, senza produrre niente, semplicemente giocando sull'andamento dei prezzi.

Il gioco (e credo che quello descritto sia uno dei più semplici, dei più banali che possano venire in mente) funziona perchè tutto ha un prezzo, anche il titolo D che non è una merce.

Si chiama speculazione. E l'esistenza di un "mercato" (parallelo, virtuale, sovrastrutturale) dei derivati la rende possibile.

Se non esistesse il Mercato dei Derivati ma questi tornassero ad essere dei "semplici" CONTRATTI stipulati tra chi produce e chi acquista e se questi contratti non fossero cedibili a terzi ma utilizzabili solo dai soggetti realmente coinvolti nella transazione economica sottostante, non ci sarebbe più la speculazione.

A chi giova mantenere vivo e vegeto il MERCATO dei derivati ?

A chi produce, a chi acquista o a chi specula sulle spalle dei primi due ?

domenica 8 aprile 2012

Alta Velocità


Che scelte sono quelle che siamo costretti a fare ? 
Non c’è soluzione al rebus della nostra quotidianità.

...

Sveglia ore 6.30. Già mattina, di nuovo. Ci alziamo dal letto ma sentiamo che il riposo non è stato sufficiente. Colpa dei sogni ? Della cattiva digestione ? Dei risvegli notturni per la tosse dei figli ? 

Non lo sappiamo. 

Ogni mattina ci affrettiamo a trovare una giustificazione. Cercando se ne trova sempre una, plausibile e razionale, per ogni problema. Una ragione che non comporti la messa in discussione delle nostre abitudini quotidiane.

Colazione. Letti. Accompagnamento dei figli a scuola. E via verso il lavoro. 

Strada intasata dal traffico, tangenziale o autostrada ? 
Quel che è certo è che andare a lavorare sembra un esodo: l’esodo di chi va ogni giorno da nord a sud o da est a ovest. 

Perchè dobbiamo lavorare dalla parte opposta rispetto a dove viviamo rimane un altro mistero. Ci si può fare qualcosa ? Chissà ...

Intorno alle 9.00  finalmente al lavoro: a due/tre ore dalla sveglia. 
Neanche male ! 

Questo periodo storico ha sancito l’idea che il lavoro è un lusso, un regalo, una fortuna per pochi. Una volta era una fatica, stancava, a volte ti nobilitava, ma ora è proprio ed esclusivamente un terno al lotto. 

Quindi, che tu ce l’abbia sotto casa o a un’ora di strada, che tu stia alla scrivania o in una catena di montaggio, tutto si è paurosamente livellato. Chi ha il lavoro non può fare altro che ringraziare di averlo e tenerselo stretto. Senza lavoro non c’è più solo la disoccupazione, ma il baratro sociale.

La giornata lavorativa termina alle 19.00 oppure in tempo per riprendere i bambini da scuola. Chi si attrezza con nonni, giri di baby sitter e genitori amici. Ogni tanto c’è la chiamata telefonica da parte dell’insegnante, in piedi davanti al cancello della scuola, al genitore che non è arrivato in tempo. “Doveva venire il papà” o “Sono stata bloccata dal traffico ma stiamo arrivando”. 

E i bambini si trasformano in ruote dell’ingranaggio, dove il meccanismo si interrompe, dove la corsa si gioca sul filo di lana: traguardo mancato per sovrapposizione di impegni. Scatta la solidarietà: “lo prendo io”. Per qualche bimbo invece l’attesa si protrae e da lontano si scorge qualcuno con la mano alzata che dice “eccomi”. 

Ce l’ha fatta. Anche oggi i tasselli del puzzle si sono incastrati.

Oppure c’è la telefonata dalla scuola: “non si preoccupi, ma il bambino non sta bene…Potete venire?”. “Certo, arriviamo subito”. Subito: è una parola ! Ma bisogna pensare ancora una volta a chi di bimbi ne ha tre o quattro. A chi non ha nonni, baby sitter, amici. E quindi non ci resta che accettare la nostra quotidianità: ci va stretta, non sappiamo come gestirla, ma è quella che ci ritroviamo e, ce lo ricordano tutti, non è la peggiore, quindi la dobbiamo vivere.

Ce lo ripetiamo nel riassettare la casa, nel vedere il cesto dei panni da lavare che cresce, nel cucinare qualcosa con il frigo vuoto, nello stare in mezzo al traffico per ore prima di tornare a casa.

Poi a un certo punto qualcuno si rende conto che la corsa è eccessiva. Il cuore all’improvviso impazza o non si sente bene. 

Si rende conto che quella vita che  consente di avere il conto corrente in positivo e di pagare i debiti (è già un traguardo oggi no?) ma che costringe a stare fuori di casa 50 ore la settimana o a correre all’impazzata, non è vita

Ce l’hanno venduta come tale. Ma non lo è.  

Allora qualcuno decide di decidere. La vita è nostra. Nessuno può decidere al posto nostro. 

Decide di scendere dal treno in corsa. 

Ridimensionare impegni, ritrovare il tempo. Quello che ci hanno rubato mentre ci riempivano di bisogni indotti e (quindi) di debiti per poter soddisfare quei bisogni.

E in genere sono le donne che decidono di scendere.

Sono circa 800.000, in Italia, le donne che dichiarano di aver "rinunciato" al lavoro a seguito di una gravidanza (fonte Istat).

Il lavoro non scompare in realtà. C’è quello familiare e genitoriale. Invisibile ma strutturale. Diceva Saint’Exupéry “l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Chi esce dal lavoro o patteggia il part time, decide di tacitare la vocina interna che cercava l’uguglianza sociale. Del resto ormai non è più così difficile: tutto sommato  è semplice pensare che sia stata una falsa conquista… che qualcosa sia andato storto o peggio, che ci abbiano fregato. 

Se non c’è un sistema sociale che ci sorregge, non c’è eguaglianza che tenga. 

Non siamo in Danimarca ! Sotto la pressione del lavoro, del tempo che incalza, i minuti che mancano, le corse per arrivare in orario, il sistema familiare crolla, sotto l’egida del tempo che sparisce e che non ti fa più vivere.

Chi ritrova un po’ di tempo pensa di aver vinto. E poi, a poco a poco, si rende conto che il conto corrente ricomincia a scendere e le bollette tornano ad insidiare i risparmi. 

Tutti i costi sembrano naturalmente amplificarsi. E comincia a risalire la tensione. La necessità di rientrare nel ritmo forsennato, per starci dentro. Ricomincia la paura. Ci hanno detto che dobbiamo stare attenti: chi esce dal mercato non è detto che possa rientrarci.

E ci si sente un po’ come sui treni in Birmania: devi salire al volo con qualcuno che ti dà una spinta e ti butta dentro le valigie. 

Ecco sei risalito: sei di nuovo sul treno. 

Ma, il treno, dove sta andando ?

Silvia.

mercoledì 4 aprile 2012

La Metamorfosi


Recentemente, dal 29 al 30 marzo, si è tenuto a Londra un importante convegno organizzato dall' Aspen Institute Italia intitolato: The future(s) of Capitalism (I futuri del Capitalismo).

Un tema davvero molto stimolante, vista l'incertezza del momento storico che stiamo vivendo tutti noi cittadini d'occidente.

Qui potete trovare un breve resoconoto del convegno: 



Solo per inciso e detto tra parentesi, per capire che cos'è e quanto può essere influente l'Aspen Institute Italia - sezione italiana della omonima organizzazione internazionale -  è sufficiente leggere le lista dei membri del comitato esecutivo


che sorprende per la sua fortissima connotazione elitaria e bi-partizan

)

Ma quali sono, quindi, i futuri del Capitalismo che emergono dalla approfondita analisi di questo convegno ?

Purtroppo non ci sono (o almeno io non ho trovato) gli atti del convegno e il breve resoconto pubblicato sul sito non accenna per nulla alle prospettive future.

Peccato.

Il resoconto si limita a fotografare la situazione attuale ed eterogenea delle varie economie del mondo capitalista (Europa, StatiUniti, Cina) e a ribadire l'immagine, oserei dire l'archetipo, di un Capitalismo trasformista in grado di adattarsi a qualsiasi cambiamento:

<<
Il capitalismo ha storicamente dimostrato una grande capacità di evolvere, adattandosi a contesti politici e tecnologici mutevoli. La conferma viene proprio dalle numerose varianti di rapporto tra stato e mercato che osserviamo oggi nelle economie più dinamiche al mondo. 

Quella che stiamo attraversando è la crisi – grave, ma forse non terminale – di un particolare tipo di capitalismo, che potrebbe accelerare il declino relativo dei paesi occidentali rispetto ad altre potenze emergenti.
>>

Insomma non ci resta che attendere che la crisalide diventi farfalla sperando che la metamorfosi non sia troppo dolorosa per noi cittadini qualunque, molto poco elitari, molto poco bi-partizan.