venerdì 25 maggio 2012

La responsabilità diffusa


Come si può suscitare un cambiamento sociale dal basso, senza sentire o presumere che qualcuno stia orientando le tue azioni o che ci siano persone infiltrate che cavalcano la nuova onda solo per interessi personali ?

Come si fa a provare a cambiare le cose, senza il rischio che ci sia, da una parte una minoranza di persone che ha capito la necessità di modificare l’attuale organizzazione e, dall’altra, la maggior parte della gente che continua a vivere (o sopravvivere) nella propria quotidianità a volte anche faticosa e dura ?

Credo sia importante ricordare che esistono teorie psicologiche che spiegano le azioni dell’individuo nel momento in cui, appartendo ad un gruppo, riduce la sua “quantità di responsabilità”.
 
Se vediamo che nessuno reagisce o che la maggior parte delle persone rimane indifferente di fronte ad una situazione di pericolo, ad esempio, restiamo inerti e non ci preoccupiamo. Gli psicologi la chiamano “ignoranza pluralistica”. Se nessuno si preoccupa, non c’è da preoccuparsi…. O meglio la preoccupazione che sto provando mi appare infondata.
 
Sapere che noi funzioniamo così è importante, perché è una sorta di specchio che modifica la nostra immagine riflessa e le facili categorie nelle quali ci suddividiamo come ad esempio altruista/egoista. Questa nuova immagine ci sollecita a pensare a dinamiche di sistema più complesse, a  prenderne atto, per provare poi a “romperle” o modificarle.

C’è un bellissimo esperimento realizzato da due psicologi sociali John Darley e Bibb Latanè negli anni settanta:

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Gli studenti, che si prestarono volontariamente a fare da soggetti per questa ricerca, al loro arrivo passavano lungo un corridoio sul quale si aprivano le porte di numerose stanze. Lo studente veniva condotto dallo sperimentatore in una di queste stanze dove vi era un’attrezzatura per comunicare attraverso dei telefoni interni, sedeva quindi ad un tavolo dove c’era un microfono e metteva una cuffia per l’ascolto. Veniva quindi lasciato solo nella stanza.
 
Attraverso la cuffia il soggetto ascoltava la voce dello sperimentatore, il quale diceva di essere interessato ai problemi personali degli studenti universitari, specialmente di coloro che potevano trovarsi in un particolare stato di stress ambientale (erano a New York).
 
Gli studenti a turno avrebbero parlato dei propri problemi ma senza vedersi, per garantire l’anonimato, sentendo comunque la voce l’uno dell’altro.  Contemporaneamente veniva detto che lo sperimentatore non avrebbe udito niente della conversazione che si svolgeva tra gli studenti, ma avrebbe raccolto alla fine i loro commenti.
 
Variabile critica: numero di soggetti che apparentemente partecipavano alla seduta. Nel senso che lo studente era sempre da solo ma gli veniva fatto credere (perché ascoltava voci preregistrate) di essere con un altro, con altri due o cinque studenti, tutti  in comunicazione con lui.
 
L’esperimento inizia con una “prima persona” che racconta dei suoi gravi problemi di adattamento a New York e in particolare nell’ambiente accademico.
Inoltre questa persona racconta di avere avuto attacchi epilettici, specialmente in vicinanza degli esami o durante periodi di studio accanito.
 
Dopo questo intervento si sentono le voci degli altri “presunti” partecipanti che parlano per due minuti dei loro problemi; infine anche il vero soggetto parla di sé.
 
Quindi riprende il primo,il quale, con un tono di voce assai sofferente, comincia a dire qualcosa del genere : “Oh, io… c’è qualcuno che potrebbe… c’è qualcuno che può aiutarmi? …sto male… ho bisogno di aiuto… c’è qualcuno che potrebbe aiutarmi.. oh, dio, mi sembra di avere un attacco… mi sta venendo… se qualcuno può venirmi ad aiutare (si sentono suoni di uno che sta soffocando). Mi sento morire… ho un attacco…
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E’ estremamente interessante conoscere quale è stato il comportamento delle persone che hanno sentito dire queste parole.
 
Pressoché tutti gli studenti che credevano di essere i soli destinatari della richiesta di aiuto, sono corsi fuori dalla stanza per avvertire di cosa stava succedendo e soccorrere il compagno che credevano stesse male, con una media di 52 secondi di attesa. Alcuni non aspettarono neanche che l’altro finisse di parlare.

Molto diversa fu invece la reazione di quelli che credavano di fare parte di un gruppo di sei persone. Essi sapevano che la richiesta di aiuto era ascoltata in quello stesso momento da altri cinque studenti e solo nel 31% dei casi interruppero la sessione ed uscirono per dare l’allarme. Inoltre il tempo medio trascorso fu notevolmente più lungo… cioè quasi 3 minuti.
 
Il comportamento delle persone che si trovavano nella condizione sperimentale intermedia, (gruppo di tre persone), si collocò  a metà strada fra i due estremi.

Questo comportamento viene riproposto anche se la situazione può rappresentare un pericolo per la persona stessa, come nell’esperimento in cui ad un certo punto compare la presenza di fumo dall’apertura del riscaldamento. 
Anche se l’aria diventa irrespirabile  nessuna delle tre persone che compilavano il questionario si alzava per fare qualcosa, mentre, se la persona era da sola in tre/quattro minuti usciva per avvertire della fuoriuscita di fumo.

E’ importante sapere che, senza rendercene conto, la semplice appartenenza ad un gruppo influenza profondamente le nostre azioni individuali.

Quando si presenta qualcosa di anomalo e potenzialmente allarmante e non abbiamo altre informazioni su cui basarci, noi guardiamo il comportamento degli altri, come per sapere di che si tratta, se dobbiamo o no preoccuparci e intervenire, cosa dobbiamo fare. Insomma: contiamo prima sugli altri e poi su noi stessi.

( tratto da Esperimenti di Psicologia – Valentina D’Urso e Fiorella Giusberti- Zanichelli )

Immagino infine che i messaggi di rassicurazione che vengano dall’alto (dal potere politico, dai media) possano essere ancora più "rincuoranti".
 
Le cose stanno precipitando, ma tutti sono apparentemente tranquilli.
 
Chi si agita o si preoccupa, viene considerato ansioso e provocatore.
 
Lo sperimentatore può dire che l’esperimento è perfettamente riuscito.

Silvia

5 commenti:

  1. Grazie Silvia per l'argomento molto interessante e ahimè anche molto vero.
    Purtroppo siamo in una condizione che ha molte analogie con quella dell'esperimento.
    C'è solo da augurarsi che stiano per terminare i tre minuti.

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  2. Scusa Silvia non ritieni che ci possa essere un collegamento ( voluto o inconscio...) tra questo post sulla responsabilità diffusa e il diretto precedente (cronologico) sulla qualità apparente.
    Provocatoriamente avrebbe senso chiedersi in quali dei due contesti, pubblico e privato, vengano promosse queste dinamiche di 'social loafing' di cui parli. Oppure il chiederselo e' eccessivo.
    A me sembra che la dicotomia sia apparente e sfugga ad ogni tentativo di determinazione. Certo le normative che le regolano sono differenti. Ma quelle sono convenzioni. Vorremmo sapere delle pratiche.
    Son quelle che danno il senso all'azione ed all'essere.
    Non e' che così alla fine scopriamo che il privato ( modo di pensare e agire di ) si insinua nelle file del pubblico, in termini di partecipazione e coinvolgimento, piu' di quanto pensiamo o ci illudiamo di pensare?
    Possiamo forse escludere che il 'normativismo' del privato sia solo un'apparenza di efficientismo sterile.
    Eppoi perche' il privato, divenuto tale, smette di sognare di essere pubblico, anche se il personale oscilla tra le due categorie?
    Mentre il pubblico quando si fà burocrazia si mette già da subito la maschera del privato.

    Ciao
    Valter

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    1. Hai ragione Valter, sia a parlare di maschere sia di identità che si mescola tra pubblico e privato. Nel senso che a livello individuale si può avere un interesse privato e compiere azioni che tutelano questo interesse anche lavorando nel pubblico.
      E magari un lavoratore di una ditta privata che produce macchinari per le strutture ospedaliere sembra oggi come oggi che compia una azione per la collettività più di un dipendente pubblico demotivato e che ritarda l'adempimento delle pratiche.
      Ma non sono sicura di potere mescolare interessi e responsabilità.
      Nel senso che spesso nel pubblico è chiara la responsabilità, meno chiara la possibilità che ha il responsabile "direttore o tecnico" di portare avanti le proprie azioni. Quali meccanismi, quali ostacoli rendono a volte la macchina del pubblico poco efficiente? Perchè per risolvere questi problemi si pensa sempre di tagliare i fondi o di mettere dei vincoli normativi che irrigidiscono,anzichè cercare di stanare davvero le inefficienze e di premiare finalmente il merito? E' interesse personale o interesse del sistema che governa minarne l'efficienza?
      Perchè non ci sono meccanismi di controllo?
      Credo anch'io che non ci sia dicotomia tra pubblico e privato, ma non perchè sono la stessa cosa, anche se le persone che formano il pubblico ed il privato possono essere le stesse persone.
      Sono infatti ormai convinta che ci siano ambiti come quelli dei servizi e della gestione dei beni comuni, che il pubblico deve gestire e governare.
      -Dalla teoria alla prassi alcune domande:
      a) perchè la maggior parte dei dipendenti pubblici sono sindacalizzati mentre la maggior parte dei dipendenti delle piccole medie imprese no?
      b)I sindacati hanno a volte tutelato interessi personali del dipendente pubblico che non rispondeva alle reali esigenze dei bisogni dell'utenza? Prendiamo atto e ricominciamo...
      c) I dipendenti dei call center che prendeono 5 euro all'ora e non vengono pagati da 3 mesi, hanno diritto ad una tutela? Si, come?
      d) L'esternalizzazione dei servizi all'infanzia, ampio mercato per il terzo settore, sta andando in crisi con la crisi.... Cassa integrazione anche lì.... Che prospettive allora per i servizi?
      e) Ci hanno fatto credere che dobbiamo scegliere tra pubblico e privato e i fan sono schierati da una parte e dall'altra, anche se nell'immaginario collettivo il dipendente pubblico ormai ha un solo colore. Invece non si tratta di scegliere ma di distinguere gli ambiti di intervento.
      f) Privato se con regole, va benissimo. Ci sono ambiti dove la presenza di aziende private porta indirettamente anche benessere per la collettività...Basta ricordare l'Olivetti: lavoro, PIL, benessere dei dipendenti ecc.
      g) PUBBLICO efficiente, governato, è la cornice del sistema, quella che garantisce che il mercato non la faccia da padrone e che può consentire a tutti i cittadini di sentirsi parte della res pubblica con diritti e doveri conseguenti..
      g) Tutto sommato diceva Gaber: libertà è partecipazione...
      Silvia

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  3. La discussione diventa interessante :-)
    Io mi permetto di sottolineare un aspetto, quello della "proprietà" che poi determina lo scopo principale (sottolineo principale, perchè gli obiettivi di una organizzazione umana sono molti e complessi) di una azienda privata rispetto alla azienda pubblica.
    L'obiettivo principale di una azienda privata, la sua ragion d'essere, è la remunerazione del capitale investito dai soci e dagli azionisti. E questo è dovuto al fatto che l'azienda privata è di qualcuno e non di tutti, ha un proprietario un "padrone" che spesso ha un nome e cognome altre volte è un piccolo gruppo. Nelle aziende pubbliche, invece, non c'è un proprietario / padrone o, se preferisci, la proprietà è di tutti i cittadini che esprimono in forma diretta o indiretta, una rappresentanza. Partendo da questa considerazione forse banale, sicuramente cnetrale, la dialettica tra pubblico e privato diventa più concreto e non c'è conflitto tra pubblico e privato in senso assoluto, in qualsiasi settore, per qualsiasi prodotto/servizio. Il conflitto c'è laddove la gestione dei beni pubblici (beni comuni) venga affidata ai privati e quindi si utilizzano i beni pubblici (beni comuni) per remunerare il capitale di qualcuno e NON il "capitale" di tutti.
    Se il servizio è pubblico (e il bene e comune) l'azienda e l'interesse non può essere privato. Per tutto il resto c'è il mercato e si muovo gli azionisti. Per produrre e vendere pentole o software va benissimo la libera concorrenza di soggetti privati che competono mettendoci i propri soldi. Ma per l'acqua, la sanità, l'istruzione, l'energia, la viabilità, le grandi reti, per la gestione dei "beni comuni" insomma, non può esserci un interesse privato, non può vigere il principio della accumulazione del capitale come scopo e fine della impresa.
    L'ho detto meglio in questo post http://piazzaverdi.blogspot.it/2012/01/il-servizio-e-pubblico-linteresse.html un po' di tempo fa.
    ;-)
    Grazie Valter !

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  4. O anche (meglio) questo post: http://piazzaverdi.blogspot.it/2012/01/imprese-pubbliche-locali.html

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